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Disaster Recovery: 6 step fondamentali per evitare fermi operativi

Scritto da CDLAN | 12.09.2025

Garantire la continuità dei servizi IT è una sfida sempre più complessa, che le aziende devono affrontare con un approccio sistemico. In questo articolo vedremo come implementare un piano di disaster recovery efficace nel 2025, tenendo conto sia dell’evoluzione normativa, sia delle trasformazioni tecnologiche che stanno cambiando il modo di concepire la resilienza dei sistemi IT.

Disaster Recovery nel 2025, tra minacce, leggi e tecnologie

Rispetto anche solo a una decina di anni fa, il Disaster Recovery si muove all’interno di scenari molto più complessi.

I rischi, dall’uso malevolo dell’AI a quelli geopolitici
Per prima cosa, il panorama dei rischi è cambiato moltissimo: se in passato ci si preoccupava soprattutto dei guasti hardware, degli eventi naturali e degli errori umani, oggi la superficie d’attacco è più estesa e le vulnerabilità sono numericamente molte di più.

L’uso malevolo dell’intelligenza artificiale generativa, ad esempio, rappresenta una nuova frontiera del cybercrime, e a questo si sommano instabilità geopolitiche croniche, interruzioni nelle supply chain (anche digitali) e blackout infrastrutturali che rendono il quadro tutt’altro che prevedibile.

L’evoluzione serrata della normativa

Parallelamente, il quadro normativo è in forte trasformazione. Negli ultimi anni si sono susseguiti regolamenti vincolanti come NIS 2 e Cyber Resilience Act, alcuni dei quali non si limitano a raccomandare la resilienza, ma la impongono come obbligo di conformità, con tanto di responsabilità e sanzioni. Il Disaster Recovery, in questo contesto, non è più un tema tecnico appannaggio dell’IT, ma una leva strategica su cui si gioca la compliance e, in certi casi, anche la continuità dell’attività d’impresa.

L’innovazione viene in soccorso, ma cresce la complessità

A fronte di queste sfide, il panorama tecnologico offre opportunità inedite. Disaster Recovery non significa più dover costruire un sito secondario (fisico) a centinaia di chilometri dal data center principale: oggi esistono soluzioni DRaaS (Disaster Recovery as-a-service), infrastrutture distribuite, backup immutabili, intelligenza artificiale per il ripristino automatizzato e modelli cloud ibridi che garantiscono livelli di disponibilità elevatissimi.

Questa maturità tecnologica, tuttavia, ha anche un rovescio della medaglia: orchestrare correttamente tutte queste componenti, garantendo interoperabilità, sicurezza e aggiornamento continuo, richiede competenze avanzate e una governance molto attenta. Il
rischio è passare da un Disaster Recovery troppo semplice a uno efficace sulla carta, ma ingestibile. Tutto ciò spinge le aziende verso partner capaci non solo di fornire la tecnologia,
ma di gestire l’intera complessità sottostante, trasformando il Disaster Recovery da onere tecnico a vantaggio competitivo.

Disaster Recovery: i 6 step verso la resilienza

Se il contesto è cambiato radicalmente, anche i processi che definiscono un piano di disaster recovery devono evolvere. Non basta avere un sistema di backup funzionante, né definire RPO e RTO:  serve una strategia strutturata, sostenibile, personalizzata, che tenga conto della natura distribuita degli ambienti IT, dell’impatto delle normative e della pressione crescente delle minacce cyber. Ecco quelli che, secondo noi, sono i 6 passaggi chiave per costruire un piano di DR realmente efficace nel 2025 (e oltre).

Mappare i processi critici, non (solo) i sistemi IT

Un errore comune è quello di partire dall’infrastruttura anziché dal business. In realtà, la priorità è identificare i processi mission-critical, trasformandoli poi in una mappa tecnica dei sistemi che lo supportano.

Le architetture moderne sono distribuite, ibride e interdipendenti. Un singolo processo – a titolo d’esempio, la gestione degli ordini - può passare da un’applicazione on-premise a un modulo SaaS, transitare per API esposte a sistemi esterni e utilizzare database su cloud pubblico. Un guasto a un singolo nodo o la latenza di una funzione può bloccare l’intero processo.

Per questo, è necessario mappare le dipendenze applicative e infrastrutturali in modo dettagliato: database, microservizi, workflow, autenticazioni esterne ecc. Ogni anello della catena va identificato, documentato e correlato al processo, perché solo così è possibile passare da una declinazione puramente tecnica del DR a una maggiormente orientata al valore

Non dimenticare mai il risk assessment

Sottovalutare o saltare la fase di valutazione del rischio è uno degli errori più gravi nei piani di disaster recovery. Senza un risk assessment strutturato, si rischia di proteggere ciò che non serve, trascurare ciò che è davvero critico e investire risorse in modo inefficace. 

Esistono diversi framework e modelli per condurre questa analisi. Tra i più diffusi ci sono il NIST Risk Management Framework (RMF) e ISO 27005, ma anche approcci come il FAIR (Factor Analysis of Information Risk), che permette di quantificare i rischi anche in termini economici. 

Scegliere un modello di DR sostenibile

Implementare un piano di disaster recovery che funziona sulla carta ma è ingestibile nella pratica è uno scenario possibile. Il DR nel 2025 deve essere efficace, certo, ma anche sostenibile nel tempo, sia in termini economici che operativi. 

Le soluzioni DRaaS hanno reso più accessibile la creazione di ambienti di failover pronti all’uso, evitando la costruzione di costosi siti secondari fisici. Ma attenzione: non tutti i provider DRaaS sono uguali. La scelta va fatta con estrema attenzione rispetto a parametri chiave come la localizzazione dei dati, la latenza dei servizi critici, la capacità di monitoraggio continuo e SLA.

Mettere al primo posto la compliance

La compliance normativa è diventata uno dei pilastri fondamentali del disaster recovery. Come anticipato, un esempio è la Direttiva NIS 2, che impone a soggetti giuridici essenziali e importanti l’adozione di misure di resilienza documentate, testate e monitorabili, tra cui rientra esplicitamente un piano di disaster recovery. È fondamentale che il disaster recovery sia dunque documentato e dimostrabile: ogni componente, dall’infrastruttura alla procedura di test, deve essere tracciata e collegata a ruoli e responsabilità. 

Alla ricerca di personalizzazione e innovazione

Il disaster recovery non è un prodotto pronto all’uso, ma un processo che va personalizzato sulle specificità tecniche e operative dell’impresa. Le tecnologie disponibili assecondano molto bene questa esigenza: repliche sincrone e asincrone, snapshot, backup immutabili, containerizzazione, orchestrazione multi-cloud, continuous data protection e soluzioni DRaaS permettono di costruire un piano su misura, in linea con le priorità di ogni azienda.

Qui entra in gioco anche il ruolo dell’intelligenza artificiale, che nel disaster recovery può fare la differenza in almeno due ambiti: 

  • Anomaly detection, ovvero rilevazione di comportamenti anomali che potrebbero portare a un’interruzione operativa;
  • Orchestrazione del recovery: alcune soluzioni evolute usano sistemi esperti per automatizzare decisioni durante il recovery, tra cui quale nodo attivare per primo e come bilanciare il carico.

Integrare sicurezza e resilienza

Nel 2025, non può esistere un piano di disaster recovery o di business continuity che non tenga conto delle minacce cyber. Se un backup può essere manomesso, cifrato o cancellato da un attaccante, serve oggettivamente a poco ripristinarlo. Se un attacco ransomware blocca anche il disaster recovery site, l’intera strategia di continuità fallisce ancora prima di iniziare.

È per questo che la sicurezza deve pervadere ogni livello del DR: dai meccanismi di salvataggio dei dati alla gestione degli accessi, fino all’orchestrazione dei processi di failover. Il backup, dal canto suo, deve essere immutabile, isolato, verificato e ripristinabile in un ambiente integro.