Business Continuity

Business Continuity Plan: perché ogni azienda dovrebbe averne uno nel 2025

Nel 2025 sono diversi i motivi che spingono le imprese ad adottare un Business Continuity Plan: dai rischi cyber all’instabilità geopolitica, dalle crisi energetiche alle interruzioni della supply chain. Ma quest’anno, più che in passato, è la spinta normativa a imprimere un’accelerazione significativa, trasformando la continuità operativa in un requisito di compliance.

Business Continuity Plan: partiamo dalle conseguenze, non dalle cause

La maggior parte degli approfondimenti sul tema del Business Continuity Plan parte dalle cause che mettono a rischio la normale operatività aziendale: attacchi informatici sempre più sofisticati, guasti hardware critici, eventi naturali, fino alle tensioni geopolitiche che influenzano ecosistemi IT interconnessi. Tutto vero, ma in questo articolo vogliamo spostare il focus dalle cause alle conseguenze di un’interruzione operativa.

Quando si verifica un downtime, le aziende - soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni - tendono a valutarne l’impatto in termini di danno economico diretto: personale fermo, ordini non evasi, penali contrattuali, clienti insoddisfatti. Spesso, questo è sufficiente per comprendere il valore di un Business Continuity Plan ben architettato e testato, ma anche un altro livello da considerare, meno immediato ma ancora più critico: il danno reputazionale. Perdere la fiducia dei clienti, dei partner o degli stakeholder può avere un costo più alto del fermo stesso, ed è molto più difficile da recuperare.

Nel 2025, tuttavia, c’è un ulteriore elemento che sta accelerando la presa di coscienza da parte delle imprese: la normativa, e in particolare la Direttiva NIS 2 che è attualmente in fase di adozione nei diversi Paesi dell’Unione Europea, Italia compresa.

Business Continuity Plan e il rischio di compliance: sanzioni fino a 10 milioni di euro

A una prima lettura, la direttiva NIS 2 non introduce elementi realmente rivoluzionari in materia di Business Continuity. L’articolo 21 stabilisce infatti che i soggetti essenziali e importanti debbano “adottare misure tecniche, operative e organizzative adeguate e proporzionate per gestire i rischi posti alla sicurezza dei sistemi informatici”, includendo esplicitamente misure di “continuità operativa, come la gestione del backup e il ripristino in caso di disastro, e la gestione delle crisi”. 

Perché non c’è nulla di rivoluzionario? Perché il perimetro di applicazione della Direttiva riguarda aziende di medie e grandi dimensioni, che hanno già familiarità con pratiche di business continuity e di disaster recovery.

Eppure, anche senza introdurre obblighi del tutto nuovi, NIS 2 rappresenta un ulteriore passo avanti verso l’integrazione della continuità operativa nei processi aziendali. Il motivo principale è l’impianto sanzionatorio: la Direttiva prevede sanzioni fino a 10 milioni di euro o il 2% del fatturato mondiale per le entità essenziali, e fino a 7 milioni di euro o l’1,4% per le entità importanti. A queste cifre vanno aggiunti i potenziali danni economici diretti derivanti da un’interruzione operativa e, ancora una volta, le ripercussioni reputazionali. In questo scenario, non attrezzarsi con un Business Continuity Plan aggiornato e aderente alle best practice internazionali significa esporsi a rischi in grado di condizionare l’esistenza stessa dei soggetti economici.

Perché anche le PMI devono dotarsi di un Business Continuity Plan

Le conseguenze di un'interruzione operativa dimostrano l'importanza di dotare ogni azienda di un Business Continuity Plan strutturato. Ma se ci fossero ancora dubbi, c’è un aspetto spesso sottovalutato che merita attenzione: l’efficacia di NIS 2 si estende oltre i soggetti direttamente regolati, arrivando a coinvolgere l’intero ecosistema produttivo.

L’articolo 21 della Direttiva, infatti, richiama esplicitamente il principio della “sicurezza della catena di approvvigionamento”, ponendo sulle entità essenziali e importanti la responsabilità della sicurezza (che ha un impatto diretto sulla continuità e sulla resilienza) di fornitori e partner. In altri termini, le grandi aziende sono chiamate a valutare con attenzione la sicurezza e la solidità operativa delle realtà con cui collaborano. Questo significa che anche imprese di dimensioni minori, pur non rientrando formalmente nel perimetro di applicazione della normativa, devono fare i conti con richieste sempre più stringenti in termini di sicurezza, affidabilità e capacità di risposta agli imprevisti.

In quest’ottica, un concetto tradizionalmente legato alle grandi organizzazioni - il Business Continuity Plan - si estende nel 2025 a tutto il tessuto economico, e può diventare fondamentale per continuare a lavorare con soggetti regolati, partecipare a gare, o anche solo per mantenere attive le relazioni commerciali.

Naturalmente, un piano di continuità per una PMI non sarà identico a quello di una multinazionale. Ma essere “proporzionati” non significa essere superficiali. Un’azienda più piccola potrebbe partire da un’analisi dei processi critici, definire procedure chiare per la gestione delle emergenze, formalizzare le attività di backup e ripristino, identificare responsabilità interne, testare le soluzioni previste. In molti casi si tratta di passaggi che vanno oltre l’avere una copia dei dati o una linea ridondata: occorre un approccio sistemico, anche snello, che consenta di ripartire rapidamente e ridurre al minimo le perdite in caso di evento critico.

 

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